Mi rendo conto che mettere l’attuale premier britannico, Keir Starmer, accanto a Churchill è zoppicante. Ma vale per l’implicito auspicio: per la sanità pubblica vorrei un discorso forte tipo Churchill, non contro le Panzerdivisionen ma contro l’indifferenza con la quale si vedono diminuire sempre di più i servizi pubblici. facendo spazio alla privatizzazione. Le grandi assicurazioni erano felici quando l’Inghilterra uscì dall’Unione Europea. In Italia è diventato quasi normale pagarsi tanti accertamenti di tasca propria. A Roma sorgono cliniche private con il personale in uniforme da Grand Hotel, i pavimenti lucidissimi, ormai pure dotati di Pronto Soccorso, per chi se lo può permettere o è in possesso di una polizza assicurativa, come ne sono dotati i dipendenti di grandi aziende e anche i parlamentari italiani.
Ci vuole passione e lucidità per difendere un bene e un diritto come la sanità pubblica. È difficile riformare un servizio sanitario nazionale se al suo compleanno viene trattato da “santo napoletano”, come diceva l’Economist un anno fa, quando si celebrava il 75 esimo compleanno del NHS. Ci tengono davvero tanto gli inglesi al National Health Service, che è così personale per tutti noi, dalla culla alla tomba, afferma il Premier.
Il 13 settembre scorso il premier britannico Keir Starmer – che, a capo dei laburisti, nelle elezioni del luglio scorso ha sconfitto i conservatori, al potere dal 2010 – ha tenuto un discorso al King’s Fund, un think tank che promuove il miglioramento della cura e della salute in Inghilterra, nato nel 1897 dall’allora Prince of Wales, poi re Edward VII, per raccogliere fondi per i “voluntary Hospitals”, che non erano né pubblici e né privati, orientati verso il guadagno, ma finanziati da volontari. Il suo discorso parte da un’analisi, commissionata a Lord Ara Darzi, ordinario di chirurgia e direttore dell’Istituto of “Global Health Innovation” all’Imperial College. Contiene 162 pagine (1) più 331 (2) pagine di statistiche e grafiche. Per chi vuole il riassunto è disponibile la lettera di Lord Darzi (3).
Il report analizza lo stato globale della salute della nazione. L’aspettativa di vita, che aumentava fino al 2010 poi si riduceva con il Covid, si sta riprendendo ora lentamente. Non tutto è dovuto al non funzionamento del NHS, ma anche alla peggiorata qualità delle abitazioni, agli stipendi bassi, all’occupazione precaria, all’impoverimento e all’invecchiamento. Ci sono sempre più condizioni croniche multiple, anche tra i bambini, con un notevole aumento delle malattie mentali. I bambini sono meno vaccinati. Gli adulti seguono meno i programmi di prevenzione per il cancro. Le liste d’attesa sono aumentate. Gli intoppi nei servizi di emergenza portano a un aumento di 14.000 decessi all’anno: così afferma il Royal College of Emergency Medicine. Ci sono più tumori e l’attesa dalla diagnosi al primo trattamento è troppo lunga. Una volta dentro il sistema, il paziente riceve delle cure eccellenti: ma entrarvi non è facile. La spesa è troppo sbilanciata verso l’ospedale. Il 13% dei ricoverati non dovrebbe più stare lì, ma aspetta un posto in comunità dove il servizio è insufficiente. I ritardi fanno sì che troppe persone ancora in grado di lavorare non possono rientrare al lavoro, costituendo così un costo alto per la società. La pandemia ha colpito un servizio sanitario già al minimo di medici, infermieri e posti letto, contribuendo a una mortalità aumentata. Il NHS paga per gli errori nell’assistenza 1,7 % del suo budget, 2 miliardi di sterline. Il personale è esaurito e ha un livello alto di malattia. La riforma del 2012 “Health and Social Care Act” è stata una catastrofe e la Care Quality Commission non è in grado di migliorare il Servizio.
Questo in estrema sintesi lo stato del National Health Service in Inghilterra: un’analisi spietata. Basandosi su di essa, come è riuscito Keir Starmer a fare un discorso commovente? Prima di tutto usando un tono non di comizio, ma di persona convinta di quello che dice e promuove. All’inizio afferma che erano increduli e sotto choc per quanto scoperto, pure Lord Darzi. e che questo è imperdonabile. Ci racconta che nei Pronto Soccorso il 10% aspetta più di 12 ore e che 100.000 bambini più di 6 ore. Questo non è solo fonte di ansia e paura, ma porta a migliaia di morti evitabili. Questo fatto lo chiama devastante, straziante ed esasperante. Per l’assistenza psichiatrica 345.000 persone aspettano più di un anno. Il peggioramento della salute riguarda anche i bambini. In una notte ci sono 12.000 persone in ospedale perché non hanno trovato le cure di continuità nella comunità. Potrebbero riempire 28 ospedali. I clinici cercano posti invece di curare altri pazienti. Il sistema deve essere riformato o morire. Lui invoca: Challenge, Change and Hope , Sfida, cambiamento e speranza per rifare il NHS “fit for the future” . Racconta storie di malati per sottolineare la necessità del cambiamento disegnato dal suo piano di 10 anni. Termina il discorso con tre punti chiave della riforma.
Il servizio deve cambiare dal sistema tuttora analogico a quello digitale. Il paziente è in possesso dei suoi dati, che sono accessibili a tutti gli operatori del NHS.
I finanziamenti devono cambiare, spostandosi dall’ospedale verso i servizi della comunità, così che il flusso dei malati non viene interrotto e il lavoro diventa più efficiente. Questo è stato promesso anche dai governi precedenti, ma è successo il contrario. L’accesso al medico di medicina generale deve migliorare; invoca il ritorno del medico di famiglia
Il focus deve cambiare dalla malattia alla prevenzione, con una particolare attenzione per le malattie mentali dei bambini.
Conclude affermando che il governo è decisamente impegnato verso questa missione.
Non mancano voci critiche, come quella pubblicata nel Lancet del 21.9.24, secondo la quale la brutta verità del SSN non si trova nel report potente di Lord Darzi ma nell’ Annex di 300 pagine: una nazione più fragile e malata di altri, con livelli più alti di morti evitabili. Un bambino su tre vive in povertà, con aumento dell’obesità e delle malattie mentali. I dati non sono nuovi. The London School of Economics-Lancet Commission diceva la stessa cosa già nel 2021. L’articolo si chiede: e adesso? Come si fa a realizzare il cambiamento dei punti principali individuati da Lord Darzi? Questa è la grande sfida politica.
È necessario anche tener presente la situazione che Sandro Spinsanti descrive in un articolo sul Corriere della Sera del 29 settembre: “Combattere anche il dolore burocratico”. Con questa espressione individua la situazione di marginalità che colpisce molti pazienti che non riescono ad accedere ai servizi socio-sanitari dei quali avrebbero bisogno e che spetterebbero loro di diritto. Le persone anziane non digitalizzate che non riescono a gestire lo SPID, come faranno? La riforma terrà presente questa e simili condizioni di esclusione dalla rete dei servizi? Farà tesoro del sapere sulla cura delle cronicità, sul diventare proattivi in medicina generale e non – come proposto – misurando la pressione arteriosa dal dentista e dall’oculista?
Lord Darzi alla fine della sua lettera afferma che non è in questione il servizio sanitario pagato dalle tasse dei cittadini, gratuito e basato sulla necessità e non sulla disponibilità economica. Dice che gli altri sistemi basati sulle assicurazioni sono pure più costosi. Perciò non è che non ce lo possiamo permettere, ma non ci possiamo permettere di non avere un servizio sanitario pubblico. Senza un’analisi dello status quo non può aver inizio una riforma; senza una visione di un futuro nuovo non ci sarà mai un rinnovamento profondo. L’analisi in Inghilterra è stata fatta e già questo è ammirevole.
Torno a Churchill: “We shall never surrender. and … if all do their duty …we shall prove ourselves once more able to defend our Island home. We shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills” (Non ci arrenderemo mai. e… se tutti faranno il loro dovere… dimostreremo ancora una volta di essere in grado di difendere la nostra isola natale. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline). Tradotto nel servizio sanitario:
non ci arrenderemo mai di averlo, il servizio sanitario nazionale; se tutti fanno il loro dovere e la loro parte: combattiamo nei pronto soccorso, negli ospedali, negli studi dei medici di medicina generale, nelle case della salute e delle comunità, nelle abitazioni delle persone, li difendiamo, ci opponiamo alla loro chiusura. Non ci dobbiamo arrendere.
Churchill aveva un piano ben preciso, aiutato da personaggi geniali come Alan Turing. Riuscirà il governo inglese a mettere in atto la riforma? Non possiamo non specchiarci nelle difficoltà inglesi. L’affollamento assurdo dei Pronto Soccorso, le liste d’attesa per la specialistica che spingono sempre di più nel privato (inutile chiamarlo privato sociale, CUP solidale o intramoenia), la conflittualità con il personale, la violenza crescente, il personale mancante e quello che resta stanco ed esaurito, con un alto tasso di malattia, ci appartiene.
È ora di fare il punto anche nel nostro SSN. L’analisi di Lord Darzi, il discorso di Starmer sono preziosi anche per noi: abbiamo bisogno di politici con una visione di giustizia sociale a lungo termine, che magari commissionano un lavoro come quello di Lord Darzi, si servono dei migliori consulenti e ce lo comunicano in modo credibile: sfida , cambiamento e speranza.
La nostra missione come comunità di terapia intensiva è quella di risolvere problemi che possono essere risolti. Tuttavia incontriamo spesso pazienti come te che hanno problemi che non possono essere semplicemente risolti. Man mano che questo virus avanza, incontreremo molti di voi. Sebbene si disponga di macchine fantastiche, farmaci potenti e personale di talento, nessuna di queste cose cura ogni malattia. Tutto ciò che fanno è darci il tempo – il tempo di capire cosa c’è che non va, il tempo di sperare di curarlo e il tempo per le persone di migliorare. Ma a volte sappiamo già cosa c’è che non va, sappiamo già che non c’è un trattamento efficace. E così a volte le macchine danno poche risposte, la terapia intensiva non risolve. Ma la speranza non è persa. Non ci siamo dimenticati di te.
Per quanto sia difficile, saremo onesti. Continueremo a utilizzare tutti i trattamenti che potrebbero funzionare e riportarti a essere di nuovo te stesso. Useremo ossigeno, liquidi nelle vene, antibiotici, tutte le cose che potrebbero funzionare. Ma non useremo le cose che non funzioneranno. Non useremo macchine che possono causare danni. Non ti premeremo sul petto se il tuo cuore smettesse di battere. Perché queste cose non funzioneranno. Non ti riporteranno ad essere te.
E se queste cose non bastassero, ci siederemo con te e con la tua famiglia. Saremo onesti, ti terremo per mano, saremo lì. Sposteremo la nostra attenzione dalla cura al prenderci cura. Non ci siamo dimenticati di te.
L’unità di terapia intensiva
Il Post di Matt Morgan sul BMJ è una novità: non si rivolge ai colleghi per condividere i criteri con cui fare le scelte che in queste ore tragiche si impongono in medicina, ma parla direttamente al paziente. Inizia in un tono colloquiale, chiedendo alle persone fragili vulnerabili e con malattie sottostanti se sono spaventati quando sentono che il virus colpisce soprattutto queste categorie. “E se questa persona fosse Lei?”, è la domanda diretta.
A questo punto illustra quello che farebbe lui come medico con loro: somministrerebbe liquidi e ossigeno, nonché farmaci se servono; quello che può funzionare e che contribuisse a riportarli come prima, mentre rinuncerebbe a fare cose che non possono funzionare, cioè niente che non possa ricondurli a essere la persona che erano in precedenza. Quindi: liquidi, ossigeno, qualche antibiotico, cure palliative; ma niente tubi, niente ventilazione, niente rianimazione cardiopolmonare (”non andremo a premere sul suo torace”). A giustificazione adduce che proprio questo sarebbe il compito della medicina: “riparare” (in inglese: “to fix”) il malato. Quando questa riparazione non è possibile, il medico è chiamato a desistere.
Rimango sorpresa da un intervento che assomiglia a una sottile manipolazione. Mi sembra una forma di “nudging”, ovvero una “spinta gentile” verso un atteggiamento di rinuncia, perché comunque il malato deve rendersi conto che non può tornare come prima.
Metto a confronto l’atteggiamento evidenziato nell’ultimo documento della SIAARTI, rivolto ai colleghi anestesisti e rianimatori, che sono chiamati a decidere se avviare o no a trattamenti intensivi i malati che ne hanno comunque bisogno per sopravvivere:
“È uno scenario in cui potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate. Uno scenario di questo genere è sostanzialmente assimilabile all’ambito della “medicina delle catastrofi”, per la quale la riflessione etica ha elaborato nel tempo molte concrete indicazioni per i medici e gli infermieri impegnati in scelte difficili. Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità. Questo comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo “first come, first served” .[1]
Anche se quello che afferma il rianimatore inglese alla fine risulta molto simile, la motivazione che porta a questo atteggiamento è diversa. Nell’uno come nell’altro caso si tratta di una decisione presa sul paziente, non con il paziente; e il motivo è che la scarsità delle risorse non permette di assumere come criterio la volontà della persona in trattamento. Tuttavia nel documento italiano siamo di fronte a una scelta presa collegialmente dai professionisti, perché in questi tempi di risorse insufficienti per tutti non ci può essere la “shared decision making”, cioè il piano condiviso delle cure. Senza tentare di indurre subdolamente il paziente a credere che sia la decisione migliore per lui.
È la medicina dell’emergenza, delle catastrofi; come previsto da Bill Gates nel suo visionario video del 2005, “non moriremo per una guerra ma per un virus”: era la sua profezia. Ci stiamo preparando in ritardo. Abbiamo sorriso un po’ dei cinesi capaci di creare ospedali in dieci giorni: adesso facciamo la stessa cosa. Possiamo solo imparare, per dare più possibilità a più persone e ridurre il più possibile le raccomandazioni da seguire in scenari di emergenza. Ma le raccomandazioni servono anche a sollevare gli operatori, aiutandoli a prendere le decisioni insieme e a comunicare con i familiari. Non mi sembra appropriato vestire di benevolenza queste decisioni drammatiche, come se si trattasse di scegliere la cosa migliore per il paziente, facendo solo quello che gli permette di tornare come prima. Né si tratta di indurre il malato a prendere decisioni di benevolenza sociale, come se dovesse cedere con gentilezza il tubo e il posto in rianimazione, dal momento che lui in ogni caso non tornerebbe come prima. È ora di ascoltare qualcosa di esplicito da parte dei politici, non lasciandolo dire ai rianimatori disperati: facciamo tutto il possibile, ma non c’è tutto per tutti e dobbiamo scegliere.
Dagmar Rinnenburger, pneumologa.
Bibliografia
[1] Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. SIAARTI 06.03.2020
uando è scoppiata la pandemia della malattia Covid 19, cioè quando ci siamo resi conto in Italia, il virus si era già diffuso in una misura che non si immaginava minimamente. L’Italia era il primo paese in Europa che è stato colpito, travolto da uno tsunami. Tutti abbiamo in mente le immagini delle file di ambulanze davanti agli ospedali e poi dei convogli militari con le salme, che penso sia stato il momento nel quale l’Italia e tutta l’Europa si sono resi conto della gravità della situazione. In questi momenti dentro gli ospedali, chiusi a chi non era malato e non ci lavorava, succedevano cose drammatiche. Di questo periodo è l’articolo su Saluteinternazionale. L’intento era quello di offrire un sostegno ai rianimatori, che sono state duramente criticati perché la loro società scientifica, Siaarti, aveva pubblicato una dichiarazione che esplicitava i criteri con cui venivano fatte le loro scelte. La dichiarazione affermava esplicitamente: “L’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la ‘maggior speranza di vita’”. Questa frase è stata aspramente criticata. È stata intesa come “buttare i vecchi per i giovani“. Questo è stato il coro critico: sia da parte degli organismi ufficiali dell’Ordine dei medici, sia da parte cattolica. È stato enfaticamente ripetuto che non è possibile accettare discriminazioni: ogni vita è degna. In realtà lo pensavano anche i rianimatori; ma alla domanda: “Se ho un letto di terapia intensiva e tre candidati, a chi lo assegno?” nessuno dava una risposta, tranne i rianimatori. Quando ci sono tre persone molto malate, si lavora in modo affannato e non c’è tempo per riunire comitati, andava deciso in pochi minuti. Era un triage da guerra e i rianimatori hanno fatto quello che potevano, cercando condivisione e conforto in un documento condiviso. Per fortuna questo periodo estremo è alle nostre spalle. Perché poi anche la politica sanitaria ha dato una risposta: sono stati creati nuovi posti letti intensivi e sono nati gli ospedali dedicati al Covid. Abbiamo cominciato a conoscere meglio la malattia e la sua diffusione. Molteplici sono le domande critiche che ci dobbiamo porre: l’abbandono del piano della “preparedness”, come se non avessimo già visto altre epidemie, la riduzione dei posti letto, il totale abbandono del territorio, a favore di un’organizzazione ospedalocentrica.
Penso che un paese deve prepararsi e la politica sanitaria deve tener conto che le epidemie e le pandemie possono far parte dello scenario futuro. Da anni gli epidemiologi si aspettavano “The Big One”, una pandemia che facesse numerose vittime. Non sono stati ascoltati. Non sono i rianimatori a poter creare posti nel momento critico e a preparare il territorio al contenimento della pandemia con le tre T: Testare, Tracciare, Trattare, che avrebbe evitato tanti malati in terapia intensiva. È come formare i vigili del fuoco quando la casa già brucia. L’Italia si è stretta nella fase più critica intorno agli infermieri e ai medici con azioni commoventi; abbiamo capito finalmente la loro eroica indispensabilità in questi momenti. Ma, come hanno dichiarato tanti operatori, non volevano essere eroi: volevano essere rispettati sempre, e pagati il giusto.
Sì, concordo. Nel libro che ho dedicato alla cronicità (La cronicità. Come prendersene cura, come viverla, Il Pensiero Scientifico 2019) ho cercato di riflettere molto sul compito di ogni cittadino di prepararsi ad affrontare eventuali emergenze e peggioramenti in corso di una malattia. L’Italia dal punto di vista legislativo ha fatto dei progressi enormi e oggi l’autonomia è formalmente garantita. Durante lo tsunami della pandemia tanto è andato perso. Era un’emergenza continua: il tempo poco, la comunicazione difficoltosa. Immaginiamo: un paziente febbrile, con il respiro molto difficoltoso, che comunica con un operatore sanitario in tuta completa con mascherina e visiera: c’è il rumore forte degli alti flussi d’ossigeno. È ovvio che i sanitari decidessero in fretta, anche spesso semplicemente per dare sollievo. Decidevano sul paziente non con lui. Ma in un’emergenza come malato posso anche apprezzare che uno decida per me. Non era proprio il setting ideale per una scelta condivisa. In più il malato era solo senza la famiglia, senza un amico. Ma ora che la grande emergenza è finita, dobbiamo riacquistare le scelte condivise. Magari anche i cittadini quando stanno bene cominciano almeno a pensare per tempo, prima delle situazioni di emergenza, che cosa vorrebbero per sé stessi ed esplicitare le proprie disposizioni. Sapendo che le scelte possono sempre cambiare, soprattutto di fronte a una domanda che sembra brutale, ma ogni tanto esprime efficacemente la realtà: “Sei pronto a morire ora?”.
La cronicità è stata definita dall' US Center for Health Statitics come una malattia che dura tre mesi o più. Secondo la definizione del National Commission on Chronic Illness, sono croniche tutte quelle patologie "caratterizzate da un lento e progressivo declino delle normali funzioni fisiologiche". In questo senso non è solo una condizione individuale. Nel nostro immaginario il cronico ha qualcosa di negativo, di irreparabile, mentre l’acuzie è quella risolvibile con un intervento tecnico, immediato.
Siamo tutti influenzati ancora dai grandi successi della medicina eroica: lo sviluppo dei vaccini, i primi antibiotici, l’anestesia che ha aperto la porta alla grande chirurgia. Quella medicina che riparava, portava a essere come prima. In medicina si parlava di “restitutio ad integrum”, ovvero cancellare la malattia ritrovando la piena salute. Abbiamo visto con molto interesse le grandi serie con medici affascinanti come George Clooney in ER o il terribile Dr. House, antipatico e tossicodipendente ma un genio della diagnostica. Oggi siamo consapevoli che anche questa grande medicina ha avuto - come dire - degli effetti collaterali qualcosa è guaribile e si può tornare come prima, ma non tutto è “riparabile”. Tuttavia è curabile. Le facce della cronicità sono tantissime: dall’ipertensione, che portava alla morte per ictus o infarto spesso già versi i cinquant’anni e che oggi è più una condizione che necessita l’assunzione di farmaci e controlli cardiologici, alla grave disabilità come la tetraplegia dopo un trauma del midollo o l’emiplegia dopo un ictus. Tutte le sfumature sono possibili: sono diverse espressioni della cronicità, di una condizione che accompagna per tutta la vita. Come sono varie le condizioni, così sono diverse le reazioni delle persone di viverla secondo le proprie funzioni, la loro capacità e la loro resilienza.
Il mio libro ha come immagine la foglia del Gingobiloba, che ha offerto lo spunto per una famosa poesia di Goethe, molto conosciuta in Germania. Della foglia il poeta mette in luce l’unicità e la duplicità. Ho scelto questa metafora per la convivenza tra cronicità e acuzie: la salute è, come come quella foglia, una e duplice.
La persona affetta da un problema cronico può sempre riacutizzare e il problema acuto si può cronicizzare. Per questo motivo idealmente il luogo giusto per la cronicità è il territorio e la propria casa. Il punto di riferimento non è solo il medico di famiglia: nel momento dell’insorgenza di un problema acuto ci vuole la rete ospedaliera. Ci sono situazioni dove il paziente cronico deve essere accolto in un ospedale. L’ospedale è per antonomasia il luogo dell’ acuzie, della grande chirurgia, delle terapie intensive. È bene che sia così. Ma la persona affetta da cronicità, pluripatologia e complessità spesso è persa e non accudita a sufficienza perché potremmo dire che intralcia la macchina della medicina dell’efficienza. Per questo dobbiamo cercare nuovi modelli.
Il medico di famiglia nel mondo ideale però è solo una delle figure che accudisce la cronicità. Ci sono in prima linea gli infermieri, ma anche i fisioterapisti, gli assistenti sociali e in alcuni casi gli psicologi e altri medici specialisti. Una forma ideale alla quale potrebbero attingere tante figure professionali è individuabile nella “casa della salute”, con non solo il medico ma anche l’infermiera di riferimento, ancora meglio se di quartiere e facilmente raggiungibile. Insieme a questo gruppo si possono prendere le decisioni su come affrontare i diversi stadi della salute e immaginare il percorso del piano condiviso delle cure.
La cronicità non è un “privilegio” della vecchiaia. Si potrebbe dire che la cronicità è il simbolo del successo, della vittoria della medicina. Inizia nell’età neonatologica. Le conseguenze di una nascita prematura si sentono spesso per tutta una vita con deficit a volte polmonari, cognitivi, neurologici e sensoriali. Questi bambini vengono seguiti per moltissimi anni. Le loro famiglie subiscono trasformazioni importanti accogliendo un bambino con un problema di cronicità. Tanti ragazzi salvati dopo un politrauma devono eseguire fisioterapia per molto tempo; se c’è stato un trauma cranico o uno stato di coma ancora di più. Sono solo alcuni esempi. Possiamo aggiungere anche le persone che iniziano ammalandosi in giovane età di malattie psichiatriche, che rimangono presenti per tutta una vita.
La pluripatologia del grande anziano è la sua fragilità. Questa va insieme con una senescenza del sistema immunitario. Il motivo è che una persona anziana che viene colpita da un virus che attacca il tessuto polmonare, come il Covid 19, può morire con più facilità non solo di polmonite ma anche delle altre patologie croniche, come la cardiopatia ischemica. Per questo nell’attuale periodo storico della pandemia da coronavirus la persona fragile non solo anziana va isolata e protetta al massimo; isolata anche dai propri nipotini e dagli adolescenti, che magari hanno avuto nelle settimane precedenti comportamenti a rischio credendosi invulnerabili per il semplice fatto di essere giovani e di non avere altre malattie. Loro, asintomatici o paucisintomatici, possono essere la fonte dell’infezione dell’anziano. La persona cronica complessa necessità di tante figure professionali che a loro volta possono essere il veicolo per il germe, ma non essendo autosufficiente non ne può fare a meno. Di qui la richiesta dei metodi di protezione per tutelare gli operatori sanitari, ma anche per proteggere i loro assistiti fragili. In questo momento assistiamo a un aumento della mortalità: anche i cinquantenni e i sessantenni sono colpiti da polmoniti interstiziali da Covid 19. Nessuno pensa che l’anziano debba essere, a causa dell’età, destinato alla morte e quindi giustificare un’omissione di intervento terapeutico. Ma in tempi di risorse limitate si impongono purtroppo scelte tragiche quando c’è la necessità di cure intensive e le risorse sono limitate, con il sistema sanitario al limite e oltre.
Per fortuna le cure palliative entrano anche sempre di più nelle patologie croniche. Una delle malattie non oncologiche che per prima veniva curata anche negli hospice era l’AIDS. Oggi è anche l’insufficienza respiratoria, sempre di più l’insufficienza di altri organi come il cuore o i reni. La medicina di “manutenzione d’organi” - come la chiama lei - è anche necessaria e benvenuta, ma ha un limite e va accompagnata da un pensiero palliativo. Una volta si poteva osservare un iter del tipo: evento acuto, ospedale, riparazione, riabilitazione; se la riparazione falliva e la terapia non funzionava più, ci si rivolgeva al palliativista. Oggi si cerca idealmente di fare le cose in contemporaneo. Non si sospende la terapia di base, ma si accompagna con cure e anche farmaci palliativi. Come la riabilitazione dovrebbe essere intrinseca già in terapia intensiva così l’atteggiamento palliativo dovrebbe essere intrinseco alle cure della cronicità e multimorbidità. Questa contemporaneità è un modello nuovo che prende sempre più piede, con il nome di “cure simultaneee”. Se questo diventa un concetto non solo del sanitario ma anche del cittadino con cronicità, si può costruire insieme l’iter delle scelte e cure condivise.
Tutt’altra è la questione dei robot, nel mio libro non li ho considerati come disperati meccanismi per la longevità, ma come una possibilità per le cure quotidiane. È un dato di fatto che mancano gli infermieri e mancheranno sempre di più; ed è un dato di fatto che il lavoro da infermiera è anche molto pesante e fisicamente spesso devastante. In Italia sempre meno giovani vogliono abbracciare questa professione. Infatti spesso chiediamo aiuto a persone che vengono da altri paesi, lasciando a loro volta un vuoto nella cura della propria famiglia. Un robot umanoide che aiuta è una grande possibilità non per la disumanizzazione della medicina ma proprio per il contrario. Robot per la routine e l’infermiera riposata per le questioni importanti e esistenziali e la comunicazione: mi sembra uno scenario possibile e sereno.
La mia vita professionale ha ruotato attorno alla cronicità e anche intorno alle acuzie avendo passati gli ultimi anni della mia vita professionale in terapia intensiva respiratoria. Vorrei - come penso tutti - essere autosufficiente il più a lungo possibile. Se un giorno non lo sarò e se venissi posta di fronte a questioni essenziali nel proseguire le cure, vorrei essere lucida per fare le scelte giuste e vorrei un giorno, sazia di giorni, poter dire basta con serenità.
La logica dice: se hai una malattia cronica, sei un cronico. Ma nessuno vuole sentirselo dire. Magari dentro di sé pensa di essere “diversamente acuto”... Anche su questo malinteso si basa la scarsità nell’aderenza alla terapia (anche chiamata compliance, in inglese). Se siamo diversamente cronici, non dobbiamo prendere qualcosa tutti i giorni. Le medicine - si sa - fanno male; basta intervenire quando il male si acutizza. Il nostro sentire si basa tutt’ora sul modello della medicina eroica, rinforzato dalle grandi serie televisiva. E come i cittadini non vogliono essere cronici, così i medici e gli infermieri preferiscono le grandi acuzie, sulle quali si basa il sistema sanitario nazionale. Ospedali superefficienti attrezzati per grandi interventi, sale operatorie high tech , pronto soccorsi degni dell’ospedale di Chicago di ER- Emergency Room. E’ in questa rete di cure che finiscono anche i cronici. Inappropriatamente. “Ma perché ha portato qui sua madre, che è cronica”, si è sentita rimproverare una figlia da un infermiera in un pronto soccorso. “Non sapevo a chi rivolgermi” è stata la risposta della figlia disperata. La scena riflette bene lo stato dei malati cronici nel nostro servizio sanitario.
Nel 2016 è nato il Piano Nazionale Cronicità. Nel 2017 le stime dicono che 24 milioni persone in Italia soffrono di malattie croniche, con una spesa complessiva di quasi 70 miliardi di euro. Il piano si è diffuso a macchia di leopardo. Alcune regioni non vi hanno ancora messo mano. Se ne parla poco. Le difficoltà sono tante: tra queste la mancanza drammatica di infermieri. Poche regioni hanno un’infermiera di quartiere, che è una risorsa fondamentale per curare i malati cronici. E’ tardi: la cronicità avanza e schiaccerà il sistema sanitario nazionale. Malati e famiglie soffrono. Siamo a un cambio di paradigma dal punto di vista emotivo, culturale e organizzativo. Migliorato il sistema, ne potrebbero trarre beneficio tutti, anche i grandi ospedali high tech, che guadagnerebbero enormemente in efficienza. Incombe la domanda più pressante da porre a chi ha in mano la politica sanitaria: a che punto è la realizzazione del Piano Nazionale Cronicità e quante risorse saranno dedicate a essa?
Dagmar Rinnenburger
Pneumologa
Ospedale San Camillo-Forlanini, Roma